“Nello stesso momento venne il sonno. Posò le ali pesanti sui suoi occhi che non potevano così più stupirsi del sentimento del suo amore, improvviso eppure atteso da tanto tempo, ardentemente desiderato, eppure respinto con angoscia, e con tutta la forza della sua ragione. Franziska non poteva più né stupirsi, né rallegrarsi, se non nel sogno che veniva a lei da lontano e il cui filo le sfuggiva sempre malgrado tutti i suoi sforzi per trattenerlo: il primo sogno di un'anima interiormente liberata che fiduciosa si abbandonava a un'altra anima.”

Ernst Weiss
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“Passò per vie rumorose piene di luce, per gallerie dalla risonanza profonda, su cui, con rumore di tuono, rotolavano pesantemente i treni e che eran tutte tappezzate di annunzi reclamistici dai colori vistosi, vide splendidi palazzi, e case a quattro piani, strette, con finestre polverose che ammiccavan sulla via sporca; risalì file di strade che si somigliavano come orfanelle o ciechi, condotti in fila.Infine si svegliò lentamente alla realtà, e si sentì vecchia, triste e stanca, per aver vegliato e corso.Miserabili bottegucce si schiacciavano l'un l'altra per mettersi in evidenza: abiti vecchi per i più poveri, biancheria grigia per gli operai, e per tutti viveri a buon mercato. Ceste di pere, dure e verdi, e di prugne, nere e secche, aspettavano di sedurre una clientela infantile, coperte da una rete a maglie strette che le salvava dai ladruncoli. In una botteguccia vide una donna obesa, che con le mani tremanti, secche e gialle, accendeva una lampada a petrolio. Ai suoi piedi un ragazzino la guardava con curiosità, con una carota, mezzo rosicchiata, nella sua mano di bambino sporco.Le strade, i cumuli di mercanzie, le camicie grigie, le pere, la rete, i visi stanchi delle persone, tutto era annerito dalla fuliggine grassa delle locomotive che passavano, brontolando, e dal fumo di tutti i camini degli stabilimenti che erano là, stretti gli uni vicino agli altri, come alberi di una foresta.“Ecco il tuo giorno di festa” pensava Franzi.Ella era ferita e inasprita fino al pianto, come se tutto: la strada grigia, la bruttezza della miseria, la tristezza della povertà, fossero state accumulate in quest'angolo di città straniera per disprezzarla.“Ecco il tuo giorno di festa” diceva in lei una voce chiara. E questa creatura che detestava sognare, che non comprendeva la morte, che non si attaccava che alla realtà, che non voleva conquistare e non desiderava che ciò che si può afferrare, ciò che è vibrante di vita: questa creatura si svegliava qui, nella grigia strada di un quartiere popolare di Praga, Zizkov, che nel crepuscolo confuso di una sera di primavera si prolungava a perdita d'occhio.“Ecco il tuo giorno di festa” pensava Franzi.Ella sentiva che non era solo questo giorno che la condannava, ma la troppo lunga fila di giorni di lavoro, fra cui essa aveva il suo posto: ancora grigio su grigio, come un orfanello in una lunga fila, come un seguito di ore vuote in un mondo vuoto. Vuoto? Non stava più la sua vita sulle ali della musica, la più umana di tutte le arti? Perchè dunque il suo passato restava così freddo, così paurosamente squallido, senza un sorriso, senza un ricordo, senza altro che tante pagine voltate, in un gran quaderno di musica? Aveva sempre suonato per se stessa e per la propria soddisfazione. A finestre e porte chiuse si era ubriacata di musica come di un vizio segreto.Che significato aveva per lei? Tanto? Ancora ieri ella vi aveva trovato consolazione, speranza, entusiasmo e pace, terra e cielo, letizia e dolore. Oggi tutto era lontano. Nessuno mai l'aveva ascoltata; mai nessuna delle sue parole si era riflessa nel sorriso di un'altra creatura; mai nessuno era stato dietro a lei e le aveva passato la mano sulla spalla all'ultimo accordo del pianoforte...”


“Aspettava da se stessa il sovrumano e dalla vita l'infinito. Ciò dava uno splendore di conquista ai suoi occhi, la forza al suo corpo fragile e finemente modellato, la bellezza ai suoi lineamenti rigidi. Ma ciò la rendeva vuota e fredda fino alla durezza, suscettibile fino alla punta delle dita e, come tutti gli orgogliosi, indifesa come un bambino nel profondo del suo cuore”


“Non ricorda più l'ultima volta che è riuscita a dormire per sei ore piene, sei ore ininterrotte senza svegliarsi da un brutto sogno o scoprire che i suoi occhi si erano aperti all'alba, e sa che questi problemi di sonno sono un brutto segno, un avviso inequivocabile del fatto che l'aspettano guai, ma malgrado quello che continua a ripeterle sua madre, non vuole tornare ai farmaci. Prendere una di quelle pillole è come inghiottire una piccola dose di morte. Quando inizi con quella roba, i tuoi giorni vengono trasformati in un regime stordente di smemoratezza e confusione, e non c'è momento in cui senti la testa imbottita di batuffoli di cotone e brandelli di carta. Ellen non vuole chiudere la sua vita per sopravvivere alla sua vita. Vuole che i suoi sensi siano svegli, formulare pensieri che non svaniscano nel mentre le si presentano, sentirsi viva in tutti i modi in cui un tempo si sentiva viva. Ora non sono in programma collassi. Non può permettersi altri cedimenti, ma malgrado gli sforzi di tenersi salda nel qui e ora, la pressione si è nuovamente accumulata in lei, ricomincia a sentire fitte del vecchio panico, il nodo nella gola, il sangue che le scorre troppo in fretta nelle vene, il cuore contratto e il polso frenetico. Paura senza oggetto, come gliel'ha descritta una volta il dottor Burnham. No, dice ora fra sé: paura di morire senza aver vissuto.”


“Vedendolo così, vestito per lei in un modo così manifesto, non poté impedire il rossore di fuoco che le montò al viso. Si offuscò quando lo salutò, e lui si offuscò di più con il suo offuscamento. La coscienza di comportarsi come fidanzati li offuscò ancora di più, e la coscienza che tutti e due fossero offuscati finì per offuscarli fino al punto che il capitano Samaritano se ne accorse con un tremolio di compassione.”


“Mia madre diceva sempre che è per questo che siamo stati dotati della memoria. E del suo opposto: la speranza. Così le cose che non ci sono più continuano a essere importanti. così possiamo sbarazzarci del passato e costruire il futuro.”


“Che tempi maledetti sono i periodi di malattia nell'infanzia e nell'adolescenza! Il mondo esterno, il mondo del tempo libero in cortile o in giardino, oppure per strada, penetra nella stanza del malato solo mediante rumori ovattati. Dentro prolifera il mondo delle storie con i loro eroi, di cui il malato legge. La febbre, che indebolisce la percezione e acuisce la fantasia, trasforma la stanza del malato in uno spazio nuovo, familiare ed estraneo al contempo; dei mostri emergono con le loro smorfie dei disegni delle tendine della tappezzeria, e le sedie, il tavolo, gli scaffali e l'armadio si ergono come montagne, palazzi o navi, tanto vicini da poterli toccare, eppure così lontani. I rintocchi dell'orologio del campanile, il rombo di una macchina che passa e le luci riflesse dei fari, che perlustrano le pareti e soffitto della stanza, accompagnano il malato attraverso le lunghe ore della notte. Sono ore senza sonno, ma non ore insonni; non ore di carenza ma di pienezza. Desideri, ricordi, paure e voglie combinano dei labirinti in cui il malato si perde, si ritrova e si perde. Sono ore in cui tutto è possibile, sia nel bene che nel male.”