“Ho notato spesso che siamo inclini a dotare i nostri amici della stabilità tipologica che nella mente del lettore acquistano i personaggi letterari. Per quante volte possiamo riaprire Re Lear, non troveremo mai il buon re che fa gazzarra e picchia il boccale sul tavolo, dimentico di tutte le sue pene, durante un'allegra riunione con tutte e tre le figlie e i loro cani da compagnia. Mai Emma si riavrà, animata dai sali soccorrevoli contenuti nella tempestiva lacrima del padre di Flaubert. Qualunque sia stata l'evoluzione di questo o quel popolare personaggio fra la prima di e la quarta di copertina, il suo fato si è fissato nella nostra mente, e allo stesso modo ci aspettiamo che i nostri amici seguano questo o quello schema logico e convenzionale che noi abbiamo fissato per loro. Così X non comporrà mai la musica immortale che stonerebbe con le mediocri sinfonie alle quali ci ha abituato. Y non commetterà mai un omicidio. In nessuna circostanza Z potrà tradirci. Una volta predisposto tutto nella nostra mente, quanto più di rado vediamo una particolare persona, tanto più ci dà soddisfazione verificare con quale obbedienza essa si conformi, ogni volta che ci giungono sue notizie, all'idea che abbiamo di lei. Ogni diversione nei fatti che abbiamo stabilito ci sembrerebbe non solo anomala, ma addirittura immorale. Preferiremmo non aver mai conosciuto il nostro vicino, il venditore di hot-dog in pensione, se dovesse saltar fuori che ha appena pubblicato il più grande libro di poesia della sua epoca.”

Vladimir Nabokov

Vladimir Nabokov - “Ho notato spesso che siamo inclini a...” 1

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“Tu vivi chiuso in una scatola trasparente, costruita dalle tue paure. Rompila e scoprirai di essere molto più di ciò che credi. [...] Mai fidarti delle apparenze Tomàs. Il mondo che si trova al di là del vetro potrebbe arrivarti deformato. Le pareti della scatola le ha partorite la tua mente e il loro nome comincia sempre per NON. NON posso. NON ce la farò mai. NON dipende da me, la più estesa di tutte. Ma, se guardi in alto, troverai la quarta, che si chiama NON ci credere. [...] Non hai altri limiti di quelli che ti sei posto da solo.”

Massimo Gramellini
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“È il petto di un'altra persona a spalleggiarci, ci sentiamo realmente spalleggiati solo quando abbiamo qualcuno dietro, lo dice la parola stessa, alle nostre spalle, come in inglese, to back, qualcuno che magari non vediamo e che ci copre le spalle col petto che è sul punto di sfiorarci e che alla fine sempre ci sfiora, e a volte, addirittura, questo qualcuno ci mette una mano sulla spalla con la quale ci tranquillizza e al tempo stesso ci sottomette. In questo modo dormono o credono di dormire gran parte delle coppie, dopo la buonanotte i due si girano dallo stesso lato, di modo che uno dà le spalle all'altro per tutto il tempo e si sente spalleggiato da lui o da lei, e quando nel pieno della notte si sveglia di soprassalto per un incubo o non riesce a prender sonno, soffre per la febbre o si crede solo e abbandonato al buio, non deve far altro che voltarsi e vedere, di fronte a sé, il volto di colui che lo protegge, che si lascerà baciare quel che si può baciare in un volto (naso, occhi e bocca; mento, fronte e guance, tutto il volto) o che magari, mezzo addormentato, gli metterà una mano sulla spalla per tranquillizzarlo, o per sottometterlo, o forse per aggrapparsi. (da Un cuore così bianco, pag. 72)”

Javier Marías
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“Non si puo' mai sapere in anticipo di cosa siano capaci le persone, bisogna aspettare, dar tempo al tempo, e' il tempo che comanda, il tempo e' il compagno che sta giocando di fronte a noi, e ha in mano tutte le carte del mazzo, a noi ci tocca inventarci le briscole con la vita, la nostra”

José Saramago
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“Anche in questo siamo uguali. L'unica cosa che ci fa differenti è che tu, quando hai finito di parlare con loro, hai la possibilità di sentirti stanco.Puoi andare a casa e spegnere la tua mente e ogni sua malattia.Io no. Io di notte non posso dormire, perché il mio male non riposa mai.""E allora tu che cosa fai, di notte, per curare il tuo male?""Io uccido...”

Giorgio Faletti
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“Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo.Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quello che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.Così per noi anche l'ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso del pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell'offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell'offesa, che dilaga come un contagio. E' stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l'anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti; e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.”

Primo Levi
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